National Geographic

2022-11-07 16:12:04 By : Mr. Kenny Liang

Gli effetti della pandemia di COVID-19 si estendono fino agli ecosistemi dell’oceano. In questa immagine, un’otaria della California si imbatte in una mascherina abbandonata nelle acque a largo di Monterey. 

Sei fuori per la tua passeggiata quotidiana. Vedi una mascherina per terra. Certo non è allettante il pensiero di toccare la cosa che ha schermato il respiro potenzialmente contagioso di qualcuno.

Così quella mascherina rimane lì finché non viene portata via dal vento andando a cambiare il panorama di tutto il mondo, dai parcheggi dei negozi alle spiagge delle isole disabitate.

L'AVVENTUROSA RACCOLTA DI RIFIUTI SUL SELCIATO DEL GIGANTE

Abbiamo perfezionato i vaccini in tempo record per contrastare il COVID-19 ma il problema dei rifiuti al tempo della pandemia sembra tristemente senza soluzione.

Un anno fa l’idea che mascherine, guanti e salviette usa e getta potessero diventare sostanze inquinanti per l’ambiente a livello globale non era una preoccupazione urgente. I dispositivi di protezione individuale (DPI) erano considerati essenziali per impedire la diffusione del COVID-19. Nessuno immaginava quanti ne sarebbero stati necessari e per quanto tempo. Poi la produzione è esplosa e adesso ci troviamo a fronteggiare un’enorme quantità di rifiuti.

Da allora, la letteratura scientifica ha prodotto più di 40 studi che documentano l’uso e lo smaltimento dei DPI e ne definiscono l’entità su scala globale. Questi numeri, allora sconosciuti, ci danno oggi un quadro della situazione.

A livello globale vengono utilizzati 65 miliardi di guanti ogni mese. Il numero delle mascherine è quasi il doppio: 129 miliardi al mese. Questo significa che ogni minuto vengono utilizzate 3 milioni di mascherine.

Un altro studio documenta che ogni giorno vengono gettate 3,4 miliardi di mascherine o schermi facciali. Si stima che in Asia vengano buttate 1,8 miliardi di mascherine al giorno, la quantità più alta tra i continenti. La Cina, con la più grande popolazione mondiale (1,4 miliardi di persone) getta via quasi 702 milioni di mascherine al giorno.

Sono tutti dispositivi che possono essere definiti usa e getta perché sono abbastanza economici da essere utilizzati una sola volta e poi buttati via. Ma ecco il problema: una volta buttati, non svaniscono.

Mascherine, guanti e salviette sono realizzati con molteplici fibre di plastica, prevalentemente polipropilene, che rimane nell’ambiente per decenni, se non per secoli, frammentandosi in sempre più piccole micro e nanoplastiche. Una singola mascherina può rilasciare in mare 173.000 microfibre al giorno secondo uno studio pubblicato su Environmental Advances.

“Non è che scompaiono”, afferma Nicholas Mallos che supervisiona il programma sui detriti marini di Ocean Conservancy.

Mascherine e guanti abbandonati vengono trasportati dai venti e finiscono in fiumi e torrenti che li portano in mare. Gli scienziati hanno rilevato la loro presenza sulle spiagge del Sud America, negli sbocchi fluviali della baia di Giacarta, in Bangladesh, sulla costa del Kenya e sulle disabitate Soko Islands di Hong Kong. I DPI usati hanno intasato gli scarichi delle strade da New York City a Nairobi e ostruito i macchinari della rete fognaria municipale di Vancouver, nella Columbia Britannica.

Questi materiali arrivano anche nel mondo animale. La scaltra folaga eurasiatica, un uccello alto 30 centimetri dal becco bianco, è stata vista nei Paesi Bassi raccogliere mascherine per costruirci il nido; speriamo che le sue larghe ed esili zampe non rimangano impigliate negli elastici, come è successo, diventando a volte fatale, a cigni, gabbiani, falchi pellegrini e passeri, secondo uno studio pubblicato su Animal Biology.

Mascherine, guanti e salviette non sono riciclabili nella maggior parte dei sistemi di smaltimento urbani e non dovrebbero finire nella raccolta differenziata domestica. Le mascherine possono contenere un mix di carta e polimeri, tra cui il polipropilene e il poliestere, che non possono essere separati in classi pure di singoli materiali per il riciclaggio. Inoltre sono così piccole che rimangono impigliate nei macchinari per il riciclaggio, bloccandoli (i DPI utilizzati nelle strutture sanitarie sono infatti smaltiti come rifiuti sanitari pericolosi).

Joana Prata, ricercatrice di salute ambientale all’Università di Porto in Portogallo e autrice principale di uno studio sulle ripercussioni della plastica durante la pandemia, ha sottolineato la necessità di fornire chiare informazioni ai cittadini sull’utilizzo e lo smaltimento dei DPI: “Vanno smaltiti tra i rifiuti indifferenziati in sacchetti ben chiusi”, ha scritto.

I problemi creati dai DPI arrivano in un momento complicato del processo di azioni messe in atto per contenere i rifiuti di plastica a livello globale. Si prevede che la quantità di rifiuti di plastica che si sta accumulando negli oceani triplicherà nei prossimi 20 anni e non c’è nessuna reale soluzione all’orizzonte. Se tutti gli impegni presi dalle aziende in termini di utilizzare maggiori quantità di plastica riciclata venissero mantenuti, il cambiamento prodotto ridurrebbe questo aumento previsto solo del 7%.

La pandemia ha visto anche un incremento nella produzione di imballaggi monouso perché i consumatori hanno acquistato più cibo da asporto e perché il divieto delle plastiche usa e getta, tra cui le buste per la spesa, è stato sospeso a causa della paura che i materiali riutilizzabili potessero diffondere il virus. Nello stesso tempo, in parte a causa dei tagli al budget dei comuni in difficoltà economica, un terzo delle aziende che si occupavano di riciclaggio negli Stati Uniti sono state parzialmente o completamente chiuse.

Quando la presenza di mascherine e guanti nell’ambiente è diventata sempre più evidente, Ocean Conservancy, organizzazione no profit che promuove la protezione dei mari, la scorsa estate ha iniziato a stimare la diffusione dei DPI dispersi in tutto il mondo. L’organizzazione ha aggiunto la voce DPI alla sua applicazione per dispositivi mobili che consente ai volontari di documentare le tipologie di rifiuti segnalandole sul sito web dell’associazione. In un’indagine globale di volontari che hanno partecipato a iniziative di pulizia delle spiagge nell’estate del 2020, sono stati documentati 107.219 DPI, anche se i capi gruppo hanno commentato che questa è probabilmente una cifra “molto sottostimata”.

Una stima più appropriata potrebbe arrivare dai volontari stessi: il 94% ha dichiarato di aver visto regolarmente mascherine, guanti e altri DPI nelle proprie comunità mentre la metà ha detto di averli visti ogni giorno. Il 40% ha affermato di aver visto DPI in torrenti, fiumi e mari.

“Il problema è di enorme portata, non si può nascondere” afferma Mallos. “Ma non dobbiamo dimenticare che è la punta dell’iceberg dell’esistente crisi globale di rifiuti di materie plastiche. È una questione di salute pubblica e anche di salute dei nostri mari”.

L’organizzazione ha insistito per l’eliminazione graduale di imballaggi di plastica superflui e non necessari, e dallo scoppio della pandemia, a causa dell’incremento degli imballaggi per il cibo da asporto, per la sostituzione di questi con altri materiali da imballaggio come il cartone che, quando viene eliminato, non ha lo stesso impatto degli imballaggi di plastica.

Dopo pochi giorni dalla dichiarazione della pandemia lo scorso marzo, Justine Ammendolia, ricercatrice marina che vive a Toronto e beneficiaria di una sovvenzione della National Geographic Society, ha notato un aumento di mascherine e guanti disseminati nell’ambiente quando usciva per la sua passeggiata quotidiana. Ha anche notato che mentre questi rifiuti si diffondevano per la città, nessuna organizzazione governativa o privata veniva incaricata del loro monitoraggio.

Per identificare i punti di maggiore accumulo, Ammendolia stessa ha documentato la presenza di mascherine, guanti e salviette in sei specifici luoghi tra cui due parcheggi di negozi di alimentari, un distretto ospedaliero, due zone residenziali e un percorso sportivo. La scorsa estate ha registrato 1.306 oggetti in cinque settimane. Non sorprende che la maggiore concentrazione sia stata nei parcheggi dei negozi di alimentari, seguiti dal distretto ospedaliero.

“Non è certo la quantità di plastica maggiore al mondo”, afferma Ammendolia, “ma il fatto è che l’evento della pandemia ha portato un cambiamento anche nella nostra gestione dei materiali monouso. Dobbiamo portare l’attenzione anche sulla quantità di plastica che viene prodotta, questo è il punto di partenza del discorso”.